Nel 2009, la regista statunitense Karyn Kusama dirige il pasticciatissimo horror vibrante di teen angst Jennifer’s Body, col corpo di Megan Fox a catalizzare un concentrato autodistruttivo di eros e thanatos; di qualche anno prima è Aeon Flux, tra i peggiori tonfi di carriera di Charlize Theron, action da fotoromanzo senza battiti. Nel 2016 Karyn si ripresenta al cinema con un altro tuffo nel genere – stavolta il thriller psicologico -, questo The Invitation: nel mezzo, le regie di serie di lusso come The Man in the High Castle, Billions e Halt and Catch Fire.

Qualcosa, nel corso delle incursioni televisive della Kusama, dev’essere successo, perché il suo ultimo film è sorprendentemente rigoroso e prosciugato delle imperfezioni di cui risentivano le sue opere precedenti. In The Invitation tutto prende le mosse dall’inatteso invito del titolo, che il protagonista Will (un sufficientemente disfunzionale Logan Marshall-Green) riceve dalla sua ex, ora risposatasi con il fascinoso David: la nuova coppia propone a lui e altri passati compagni di un gruppo di sostegno a una cena nella loro villetta, sita tra le collinette losangeline fatte con lo stampino e circondata da una fitta boscaglia.

Will è perplesso, e la serata non inizia nel modo migliore, visto che nel mezzo di una discussione in auto con la sua partner investe accidentalmente un coyote ed è poi costretto a sopprimerlo per porre fine alle sue sofferenze. Durante le inquiete ore che seguono, in Will cresce la sensazione di essere rimasto invischiato in qualcosa di altrettanto oscuro, pericoloso e potenzialmente letale, ma le frequenti allucinazioni che lo assalgono, figlie del trauma mai risolto della morte del figlio, disperdono l’obiettività percettiva e fanno mettere in discussione a lui e a noi l’attendibilità del suo giudizio.

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La prima ora di The Invitation procede così, fra tumulti interiori e indizi frangibili, con un’ascensione del climax da manuale (forse solo un po’ troppo dilatata). Poi, improvvisa, l’esplosione, gestita con controllo glaciale dalla Kusama e ben palleggiata da attori che dosano il delirio e il dolore rendendo chiaro quanto la foce si trovi in una ferita psicologica inguaribile e solo illusoriamente superabile grazie all’oppio religioso. Un buonissimo prodotto di genere, con un finale quasi apocalittico: attendiamo future sorprese che rinnovino la nostra fiducia in una regista finalmente pienamente interessante.



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